In un momento in cui siamo chiamati a capire velocemente quale modello di business possa sopravvivere alle incertezze lasciate dal lockdown per poi resistere nel tempo che gli succede, ci sono storie del passato che possono aiutare a… schiarirsi le idee, proprio come quella di Max Burgers, la catena di hamburger a conduzione familiare più antica e popolare della Svezia.

Nel 2007 Max Hamburgerrestauranger AB (oggi Max Burgers Incorporated), nonostante gli affari andassero molto bene, decise di approfondire il tema della sostenibilità con l’aiuto dell’associazione The Natural Step (TNS), nata nel 1989 per sviluppare e diffondere il Framework di Sviluppo Sostenibile Strategico in collaborazione con le università ed altre organizzazioni svedesi.

Questo sodalizio fu l’inizio di un viaggio entusiasmante, di fatto mai conclusosi, in grado di esplorare il potenziale del fast food sostenibile.

Il core business di un’hamburgheria sono, ovviamente, gli hamburger.

I primi dati forniti da TNS circa l’impatto dell’industria della carne sulla produzione di gas serra per circa il 18% delle emissioni globali, posero la famiglia Bergfors, proprietaria di Max, di fronte alla constatazione di essere parte del problema climatico.

In risposta, venne deciso di diventare parte della soluzione, tanto che nel 2008 Max fu la prima catena di ristoranti al mondo ad analizzare l’impatto sul clima del cibo, dalla terra al consumatore, includendo le attività svolte internamente (8% del totale) e dai fornitori (92% restante).

E così, prima catena di ristoranti al mondo, vennero etichettati i menu inserendo l’impronta di carbonio a fianco del panino, in modo da responsabilizzare sul clima i propri clienti con la loro scelta: l’hamburger di manzo emetteva 1,8 kg di CO2 equivalente, quello di pollo 0,4 kg, quello di pesce 0,2 kg.

Come apporto diretto alla riduzione dell’impatto ambientale, tutti i ristoranti furono interessati da interventi di efficientamento energetico e vennero alimentati per il 100% da energia eolica, mentre vennero effettuate compensazioni di carbonio volontarie lungo tutta la catena di approvvigionamento, dall’agricoltore al cliente, sostenendo progetti di rimboschimento in Uganda e Mozambico.

Quindi, vennero eliminati tutti i giocattoli, messi a disposizione dei clienti più piccoli, che richiedessero batterie e tutti i veicoli aziendali vennero sostituiti con altrettanti a basse emissioni di CO2.

Relativamente ai prodotti, si decise di non utilizzare OGM, di impiegare solo pesci provenienti da attività di pesca responsabile (certificazione MSC), di utilizzare prodotti in carta certificata FSC, di convertire tutto l’olio utilizzato per friggere in biodiesel, di aumentare significativamente il riciclaggio del cartone, dei rifiuti alimentari, di metallo.

E poi?

Il resto ve lo racconto … nel prossimo articolo.